Codice Prodotto / Stato Titolo Italiano Titolo Orginale
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 Attacco al potere 2  London has Fallen
poster In seguito a un attacco dei droni dell'esercito Usa, il trafficante di armi Aamir Barkawi perde la figlia durante la celebrazione delle sue nozze. Anni dopo, in seguito alla scomparsa del Primo Ministro britannico, le autorità mondiali, tra cui il Presidente degli Stati Uniti, vengono invitate a partecipare al funerale di Stato. Il pericolo di un attacco terroristico è elevatissimo, ma nessuno si aspetta qualcosa di simile a ciò che avverrà. Dopo la Casa Bianca doveva toccare a una capitale europea. Quindi chi se non l'alleato storico degli Stati Uniti, altrettanto detestato dall'Asse del Male del terrorismo islamico? Nel momento in cui si viene a sapere la notizia che il Primo Ministro inglese è morto e che seguirà una cerimonia funebre con tutti i principali capi di stato presenti, il pubblico sa già cosa lo attende. Così come l'indomito Mike, l'agente della CIA con licenza di uccidere nella maniera più barbara possibile, interpretato da Gerard Butler. Il successo, in parte inaspettato, di Attacco al potere, doveva necessariamente condurre a un sequel, reso tristemente attuale da quanto avvenuto a Parigi il 13 novembre. La contiguità con la realtà della politica internazionale però finisce qui. Attacco al potere 2, ancor più del primo episodio, è sostanzialmente un film di fantascienza, in cui la credibilità è bandita in favore di un'opera che ha come unico scopo quello di stimolare il lato più intollerante, violento e vendicativo di ognuno di noi. Che i nemici non abbiano sostanzialmente un volto riconoscibile e che ogni atto di brutalità nei loro confronti sia giustificato dalle circostanze, appositamente assemblate dalla sceneggiatura, è qualcosa che è lecito attendersi dal film di Babak Najafi. Meno prevedibile, invece, è la sua inefficacia assoluta come action movie, particolarmente debole nei colpi di scena e nelle sequenze che si presupporrebbero. Risulta difficile comprendere come siano stati investiti i 100 milioni di dollari di budget, vista la povertà di mezzi e idee che emerge da molte scelte di messa in scena: interni anonimi, senza un lavoro sui dettagli che aiuti a immedesimarsi, trappole, inganni ed espedienti già visti milioni di volte. Eccezion fatta per la sequenza sull'elicottero presidenziale, oggetto delle attenzioni di cecchini armati di lanciamissili, le sequenze action mostrano un'inventiva dall'elettroencefalogramma piatto e una tecnica quanto mai approssimativa. L'apertura delle ostilità tra governativi e terroristi, ad esempio, che culmina in una sparatoria davanti a una cattedrale, è girata in un'unica sequenza ed è priva di tagli (forse un tentativo di emulare il Johnnie To di Breaking News?), ma risulta inintelligibile nella sua frenesia e nella sua iterazione insensata di uccisioni. L'effetto Trappola di cristallo, sospensione dell'incredulità mista a colpevole stato di ebbrezza da eccesso di adrenalina, non scatta: a rimanere impresse dopo la visione non sono le prodezze dell'agente Mike, ma solamente il suo disprezzo per la vita umana, che si manifesta attraverso esecuzioni a sangue freddo, torture, battute di dubbio gusto o prediche a suon di pugni sull'eterno ruolo di difensore della libertà che caratterizza e caratterizzerà l'America. Il cast dei comprimari, rilevante sulla carta - Forster, Freeman, Leo - è totalmente sprecato in una manciata di scene girate in una Casa Bianca che non è mai sembrata così simile a un comune ufficio di una pubblica amministrazione di provincia. Volendo sforzarsi alla ricerca di elementi di interesse, si rilevano la ripresa da Spectre del tema della burocratizzazione dei servizi segreti e una sottilissima rivincita contro lo stesso James Bond e la presunta superiorità british, beffata dai terroristi islamici (la cui provenienza precisa non conta affatto, tanto da essere sintetizzata con uno xenofobo "F***headistan" dall'agente Mike). Per il resto calma piatta, nonostante le innumerevoli esplosioni. 
Genere Azione Durata 99
Regista Babak Najafi
Attori Gerard Butler, Aaron Eckhart, Morgan Freeman, Alon Aboutboul, Angela Bassett. Robert Forster, Jackie Earle Haley, Melissa Leo, Radha Mitchell, Sean O' Bryan, Charlotte Riley, Waleed Zuaiter
Paese USA Anno 2016
Scheda e Trailer http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=80170
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 Ave, Cesare!  Hail, Caesar!
poster Mentre sull'atollo di Bikini gli Stati Uniti sono impegnati con gli esperimenti sulla bomba H, a Hollywood Eddie Mannix si deve occupare di trovare una soluzione ad un altro tipo di problemi. Eddie è un fixer, cioè colui che deve tenere lontani dagli scandali in cui si vanno a ficcare le star che stanno lavorando ai film di un grande Studio. Deve quindi far sparire foto osé e cercare di camuffare gravidanze fuori dal matrimonio. Quando poi accade che scompaia il protagonista di un film su Gesù, nei panni di un centurione romano, la situazione si complica. Anche perché costui è stato rapito da un gruppo di ferventi comunisti. Sono davvero pochi i registi in attività forniti di una solida conoscenza di tutti i generi cinematografici e della loro evoluzione nel corso della storia del cinema. I fratelli Coen fanno di diritto parte di questa ristretta cerchia. Il loro pregio ulteriore è quello di saperli declinare secondo letture che vanno dal dramma di impianto intellettuale alla commedia più brillante. Nell'ormai lontano 1991 (datazione che ci offre la misura della loro tenuta) la vicenda hollywodiana dello sceneggiatore Barton Fink finiva tra fiamme allucinatorie. Oggi il fil rouge di critica allo star system si è affinato grazie ad un'ironia che non nasconde l'amore per il cinema del passato ma lo depura da qualsiasi sospetto di nostalgia rétro. Le vicende del cattolicissimo Eddie Mannix (che confessa anche quante sigarette fuma di nascosto) ci fanno entrare in un mondo che ci ricorda ciò che affermava un vero sceneggiatore, Ben Hetch: "Io odio gli attori!". Qui sono tutti adatti a un ruolo ma goffi e incapaci di vivere o di accettare possibili mutamenti di caratterizzazione. Su tutti emerge il Baird Whitlock di George Clooney tanto abile sul set (anche se con qualche fondamentale defaillance) quanto capace di farsi incantare da abili mistificatori. Tra fondali finti e improbabili farm del West, i Coen ci ricordano anche come la fabbrica della finzione si nutra di un pubblico che ha fame di affabulazioni che stanno dentro e fuori dallo schermo. A quelle 'fuori' pensano le due gemelle giornaliste, interpretate da Tilda Swinton, sempre a caccia di quegli scandali che Eddie deve coprire per contratto. Così i due fratelli ci spingono a considerare quanto siano cambiati i costumi: oggi gli scandali delle star del mondo dello spettacolo non si nascondono, si creano ad arte. Sanno però fare anche molto di più: chi pensava di non poter assistere nella vita a un dibattito teologico e/o a uno sul materialismo dialettico senza annoiarsi profondamente sarà costretto a ricredersi. Anche perché se nel film precedente (A proposito di Davis) il gatto la faceva da padrone qui, davanti a un cane che si chiama Engels, non si può fare a meno di divertirsi sapendo che, come sempre con i Coen, non si sta smettendo di pensare. 
Genere Commedia nera Durata 106
Regista Ethan Coen, Joel Coen
Attori Josh Brolin, George Clooney, Alden Ehrenreich, Ralph Fiennes, Scarlett Johansson. Tilda Swinton, Frances McDormand, Channing Tatum, Jonah Hill, Veronica Osorio, Heather Goldenhersh, Alison Pill, Max Baker
Paese USA Anno 2016
Scheda e Trailer http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=82405
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 Batman V Superman: Dawn of Justice  Batman V Superman: Dawn of Justice
poster Sin dalla sua rivelazione a Metropolis, quando salva la Terra da una minaccia ma causa molte vittime innocenti, Superman rappresenta un quesito per l'uomo: angelo custode o essere onnipotente impossibile da controllare? Per Batman/Bruce Wayne la presenza dell'Uomo d'Acciaio costituisce un'anomalia e una causa di disgrazie dirette e indirette per l'umanità, qualcosa che deve essere fermato con ogni mezzo. Giocato sin dal titolo e dal trailer sull'archetipo milleriano dello scontro fisico tra i due supereroi, Batman v Superman tiene fede all'ordinamento tra i due, che non è tale solo in senso alfabetico. Il punto di vista scelto da Snyder, nonostante la serie sia stata rifondata con l'Uomo d'Acciaio, è infatti quello del Pipistrello. Suo l'incipit - che ci riporta ancora una volta all'uccisione dei due Wayne, topos così usurato da costituire omaggio o meta-narrazione a seconda dei casi -, sua la visione del disastro che si abbatte su Metropolis, suo il dubbio che lo porta vicino a un deicidio degno di Caifa, sua infine la riflessione della coscienza collettiva. Un Batman mai così consapevole del proprio ruolo di super-uomo nel senso di miglior rappresentante della razza umana, dove Superman, colui che è letteralmente super-uomo, resta, nel bene e nel male, altro, diverso, alieno. Il suo ingresso in scena avviene ai margini dell'inquadratura, dopo uno scontro letale in fuoricampo; i suoi pensieri sono intuibili ma distanti, legati al "suo mondo", quello che Kal-el porta nel "nostro", rischiando involontariamente di distruggerlo. Un dilemma tra l'umano e il divino che avvicina Superman ai due Watchmen Ozymandias e Manhattan, scissi tra la volontà di aggiustare i destini dell'uomo da demiurghi e di disinteressarsene scegliendo l'esilio. Bontà e onnipotenza, dice Lex Luthor (reinventato in chiave millennial di Noah Baumbach, desideroso di uccidere i propri idoli e di fare tabula rasa), non possono coesistere. Benché Superman appaia più benevolo di un Batman nero e spietato come fu per Frank Miller, un vigilante che uccide senza scrupoli e picchia con un pugno che pare un maglio. Ma nonostante ci terrorizzi, è lui a comprenderci, è il Pipistrello a farci dormire tranquilli la notte. Snyder pensa prima di tutto a eseguire il compito assegnatogli, quello di spettacolarizzare al massimo - un fracasso mai visto con il Dolby Atmos - i grossi calibri dell'universo DC e preparare la strada alla Justice League, pronta a opporsi cinematograficamente agli Avengers della Marvel (e solo così si spiega la pleonastica presenza di Wonder Woman). È così diligente in questo il regista, da sperperare spunti di grande interesse, come quelli succitati o il nuovo ruolo dei media, con la notizia istantanea catturata dai video contrapposta alla macchinosa obsolescenza del Daily Planet, quotidiano che fatica a ritrovare un suo ruolo ("Non siamo più nel 1938 (...) i giornali non li compra più nessuno!"), proprio come il suo "dipendente" superumano. Ma come per i supereroi, che devono in pochi secondi prendere decisioni da cui dipende il destino del mondo, così per Snyder la priorità era un'altra. Schiaffeggiare con un guanto di sfida la Casa delle Idee, ricordando che l'America ha iniziato da qui, dal Dio tra di noi e dall'Uomo che veglia su di noi. Tutto considerato, e dovendo amalgamare materia così eterogenea, l'Alba della Giustizia dirada un po' di foschia. 
Genere Fantastico Durata 151
Regista Zack Snyder
Attori Ben Affleck, Henry Cavill, Amy Adams, Jesse Eisenberg, Diane Lane. Laurence Fishburne, Jeremy Irons, Holly Hunter, Gal Gadot, Ray Fisher, Tao Okamoto, Jason Momoa, Scoot McNairy, Christina Wren, Michael Shannon, Ezra Miller
Paese USA Anno 2016
Scheda e Trailer http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=78985
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 Forever Young  Forever Young
poster Giorgio è un quasi cinquantenne con una fidanzata che potrebbe essere sua figlia. Diego è un dj ultracinquantenne, dipendente di Giorgio, che deve fare largo ad un millennial forte dei suoi milioni di "mi piace". Angela è una 48enne divorziata che, un po' a sorpresa, si ritrova coinvolta in una relazione con un 19enne, prima di scoprire che il ragazzo è il figlio della sua amica cougar sempre a caccia di toy boy. Franco infine è un ultrasessantenne che pratica tutti gli sport in maniera ossessiva, in perenne corsa contro il tempo che passa. Il tratto comune è evidentemente quello anagrafico, e la caratteristica dominante di questi baby boomer intorno al mezzo secolo è il loro rifiuto di venire a patti con l'avanzare dell'età. Ci sono anche cinquantenni in pace con se stessi, come Stefania, la fisioterapista di cui Giorgio si innamora, ma a prevalere è la smania di eterna giovinezza preannunciata dal titolo. Fausto Brizzi torna alla regia per affrontare, anche da sceneggiatore (insieme a Marco Martani ed Edoardo Falcone), uno dei temi più caldi della contemporaneità, soprattutto in un'Italia che non fa largo ai giovani ma allo stesso tempo è pronta a rottamare chi ha qualche capello bianco. In parte Brizzi centra l'obiettivo, in parte perde l'occasione di girare un film veramente importante: quel che fa la differenza in negativo è la tendenza ad edulcorare gli aspetti più dolorosi, scansando l'amarezza e la paura che invece sono intrinseche (ed essenziali) all'argomento. Là dove Perfetti sconosciuti rivoltava più e più volte il coltello nella piaga, anche ad effetto comico, Forever Young si tiene un passo indietro, evita di affondare la lama come se "paresse brutto" e si dovesse rimanere fedeli ad un'estetica paratelevisiva in cui le comparse sono tutte attraenti, il product dello sponsor va piazzato a tutti i costi, la musica è a palla, non esistono frasi dette a mezza voce (o rimaste ferme nella strozza), gli artisti sono zero assoluti e Roma è un gigantesco attico con vista. C'è differenza fra una lettura critica, o una satira sociale, e una rappresentazione che in qualche modo glorifica ciò che mette in discussione, accontentandosi di sorridere invece che di ridere amaro. La storia più convincente, anche perché è quella che ha un epilogo non banale, e perché Bentivoglio ha il coraggio (attoriale) di rendersi consapevolmente ridicolo, è quella che vede protagonista Giorgio. La più divertente, perché azzarda le corde del grottesco, è la parabola di Diego, che può contare sulla vis comica di Lillo e sul sostegno di almeno un cammeo straordinario: quello di Nino Frassica nei panni di un prelato adibito a misurare la compatibilità di Diego con un'emittente radiofonica religiosa. Le battute migliori giocano sul contrasto fra vintage e postmoderno: "Dove lo trovi il tempo di fare la pasta a mano?" "Non ho Facebook". E da tempo non si sentiva un'allusione sessuale tanto delicata ed evocativa (per chi è nato prima dei cd) come: "Da quant'è che non metti la puntina sul vinile?". Ma se il contrasto da illustrare era quello fra "il nuovo che avanza contro il vecchio che non molla", il linguaggio del racconto avrebbe dovuto essere meno "antico", e lo spazio per il nuovo - in termini di soluzioni creative e di coraggio nell'essere scomodi e sgradevoli - più ampio. 
Genere Commedia Durata 95
Regista Fausto Brizzi
Attori Fabrizio Bentivoglio, Sabrina Ferilli, Teo Teocoli, Stefano Fresi, Pasquale Petrolo. Lorenza Indovina, Luisa Ranieri, Claudia Zanella
Paese Italia Anno 2016
Scheda e Trailer http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=86654
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 Fuocoammare  Fuocoammare
poster Gianfranco Rosi racconta Lampedusa attraverso la storia di Samuele, un ragazzino che va a scuola, ama tirare sassi con la fionda che si è costruito e andare a caccia di uccelli. Preferisce giocare sulla terraferma anche se tutto, attorno a lui, parla di mare e di quelle migliaia di donne, uomini e bambini che quel mare, negli ultimi vent'anni, hanno cercato di attraversarlo alla ricerca di una vita degna di questo nome trovandovi spesso, troppo spesso, la morte. Per comprendere appieno un film di Gianfranco Rosi è prioritariamente indispensabile liberarsi da una sovrastruttura mentale alla quale molti hanno finito con l'aderire passivamente e in modo quasi inconscio ed indolore. Si tratta del format dell'inchiesta giornalistico-televisiva che si concretizza in immagini scioccanti, in interviste più o meno interessanti finalizzate a un impianto (in particolare sulla tematica delle migrazioni) ideologicamente preconfezionato. O si è pro o si è contro la presa in carico del fenomeno e su questa base si costruisce la narrazione. Rosi, come il Salgado che abbiamo potuto conoscere grazie a Il sale della terra diretto da Wim Wenders, si allontana in maniera netta da quanto descritto sopra a partire dalla scelta, fondamentale, di aborrire il cosiddetto documentario 'mordi e e fuggi' che vede la troupe giungere sul luogo, pretendere di capire in fretta o comunque di mettere in ordine i propri pregiudizi e ripartire quando pensa di 'avere abbastanza materiale'. Il regista è rimasto per un anno a Lampedusa entrando così realmente nei ritmi di un microcosmo a cui voleva rendere una testimonianza assolutamente onesta. Samuele è un ragazzino con l'apparente sicurezza e con le paure e il bisogno di capire e conoscere tipici di ogni preadolescente. Con lui e con la sua famiglia entriamo nella quotidianità delle vite di chi abita un luogo che è, per comoda definizione, costantemente in emergenza. Grazie a lui e al suo 'occhio pigro', che ha bisogno di rieducazione per prendere a vedere sfruttando tutte le sue potenzialità, ci viene ricordato di quante poche diottrie sia dotato lo sguardo di un'Europa incapace di rivolgersi al fenomeno della migrazione se non con l'ottica di un Fagin dickensiano che apre o chiude le frontiere secondo il proprio tornaconto. Samuele non incontra mai i migranti. A farlo è invece il dottor Bartolo, unico medico di Lampedusa costretto dalla propria professione a consatatare i decessi ma capace di non trasformare tutto ciò, da decine d'anni, in una macabra routine, conservando intatto il senso di un'incancellabile partecipazione. Rosi non cerca mai il colpo basso, neppure quando ci mostra situazioni al limite. La sua camera inquadra vita e morte senza alcun compiacimento estetizzante ma con la consapevolezza che, come ricordava Thomas Merton, nessun uomo è un'isola e nessuna Isola, oggi, è come Lampedusa. 
Genere Documentario Durata 107
Regista Gianfranco Rosi
Attori Samuele Pucillo, Mattias Cucina, Samuele Caruana, Pietro Bartolo, Giuseppe Fragapane. Maria Signorello, Francesco Paterna, Francesco Mannino, Maria Costa
Paese Italia, Francia Anno 2016
Scheda e Trailer http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=88497
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 Il mio grosso grasso matrimonio greco 2  My Big Fat Greek Wedding 2
poster Toula Portokalos e Ian Miller tremano all'idea che la loro adorata figlia adolescente, Paris, possa lasciare Chicago per frequentare l'università altrove. Mentre sperano che la loro piccola famiglia possa rimanere unita il più a lungo possibile, replicando senza volerlo i costumi della scomoda tribù d'origine di Toula, usa a presenziare in massa ogni piccolo evento e a discutere in gruppo ogni accadimento privato, una nuova urgenza si apre proprio sul fronte di mamma e papà Portokalos. Sembra, infatti, che Maria e Kostas non risultino legalmente sposati e Maria, stanca di decenni di bisticci, considera l'ipotesi di cogliere al balzo l'occasione. Tredici anni separano questo secondo capitolo dal primo, inaspettato e imbattuto successo. Nia Vardalos, regista, sceneggiatrice e interprete, ha atteso tanto per essere sicura di avere tra le mani un copione che fosse all'altezza del primo riscontro, o forse per esser certa che ne avessimo persa la memoria nel frattempo, e dunque la stessa formula e lo stesso cast potessero sembrarci freschi nonostante tutto. A livello di formula, in realtà, la Vardalos fa qualcosa di più, ovvero rincara la dose. La poetica di fondo, non proprio ultramoderna, è quella dell'accettazione con ironia: "la mia famiglia è schiacciante, io rischio di quando in quando di lasciarci le penne, ma almeno voi vi farete quattro risate", dice tra le righe la Toula dallo schermo. Tredici anni dopo, però, il suo personaggio non ha più a che fare soltanto con genitori e zii, ma anche con l'allargamento che ha contribuito a creare, e si ritrova così al posto del ripieno nell'illustrazione del fenomeno della cosiddetta Generazione Sandwich. La "passione" della protagonista, che subisce da una parte e dall'altra in nome della dipendenza patologica e della consuetudine etnografica, ne farebbe una seconda tragica figura fantozziana, se non fosse che, sotto sotto, nulla la minaccia direttamente e non c'è niente che non si possa risolvere con un po' di pacchiano ma sincero romanticismo. Il ventre ingordo della grecitudine, com'è qui ridicolizzata, con l'affetto di un'insider, brontola rumorosamente, ma è poi in grado di masticare e digerire ogni cosa, dal genero yankee al figlio gay, la fiera della stravaganza si rivela la più convenzionale delle rimpatriate e la fonte di vergogna è relegata all'apparenza (la "facciata" della casa). Sappiamo di trovarci di fronte alla più classica delle commedie sentimentali, spalmata su tre generazioni per ingrossare il plot e ingrassare le vendite, sappiamo che, al di là dei battibecchi, non ci sono veri parenti serpenti né alcun genere di morso in agguato, ma è un patto stretto in partenza e non ci impedirà di lasciarci divertire e intenerire dal troppo rumore per nulla. 
Genere Commedia Durata 89
Regista Kirk Jones
Attori Nia Vardalos, John Corbett, Lainie Kazan, Gia Carides, Joey Fatone. Elena Kampouris, Louis Mandylor, Michael Constantine, Andrea Martin, Alex Wolff
Paese USA Anno 2016
Scheda e Trailer http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=86194
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 Land of Mine - Sotto la sabbia  Under Sandet
poster Danimarca, 1945. La lotta per la sopravvivenza sembra ormai non conoscere limiti all'indicibile, consumandosi lenta ed inesorabile. L'incubo della guerra ancora vivo negli occhi dei sopravvissuti, giustifica una distorsione del concetto di giustizia nelle vittime del Nazismo. Sono questi gli ingredienti della tragedia che ha risucchiato la Danimarca - e il mondo - nel vortice nero della seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze. Una parabola umana in cui vittime e carnefici si fondono, perdendo la connotazione di topos letterario per varcare quel confine entro cui la disperazione genera uomini bestiali. Nei giorni che seguirono la resa della Germania alla fine della seconda guerra mondiale, gli alleati deportarono migliaia di soldati tedeschi con l'onere di sacrificarsi per riparare al danno inferto al mondo dal regime nazista. Molti di quei soldati non erano addestrati, ragazzi costretti a percorrere in lungo e in largo le coste occidentali danesi per disinnescare più di due milioni di mine; quelle che l'esercito di Hitler aveva posizionato in previsione di un ipotetico sbarco degli alleati. Una storia poco conosciuta, che Martin Zandvliet sceglie di raccontare con la voce di quattordici giovani costretti a muoversi carponi su spiagge assolate, affidando la vita alla capacità di un bastoncino di scendere quanto più possibile nelle profondità della sabbia umida, col sangue freddo di esperti artificieri. Disposti a sacrificarsi l'uno per l'altro, ma anche spaventati e pronti a scappare quando il primo compagno resta mutilato da una deflagrazione, i ragazzi appaiono in tutta la loro fragilità di fronte alla disumanità della guerra. Come disumano è il freddo comportamento con cui il sergente danese Rasmussen fa marciare la sua squadra sulle dune ogni giorno. La tirannia, universale per definizione, ha le stesse regole ovunque: manca di morale ed evita la riflessione sul peccato, trovando, a seconda dei casi e degli individui, una sua propria (e sempre differente) legittimazione. Così uomini in divisa costringono altri uomini in divisa alla paura, al terrore e alla negazione di se stessi, stando ben attenti ad evitare il confronto, con l'unico contatto degli occhi negli occhi per sottolineare la sudditanza del prigioniero. Il film percorre le tappe di una storia carica di tensione emotiva, che costringe lo spettatore all'apnea dei primissimi piani di fronte al cuore di un esercito di bombe pronte ad esplodere. I volti puliti dei giovani prigionieri sono i caratteri di un intero popolo che, dopo aver messo l'Europa a ferro e fuoco, è stato costretto a richiamare alla leva ragazzini di tredici anni. Vediamo quindi il leader naturale Sebastian, il cinico insofferente Helmut o i dolcissimi gemelli Ernst e Werner strappati ai sogni infantili per riscoprirsi affamati e impauriti in un tratto di mondo che desidera solo vederli morire. La fotografia fredda di un'ambientazione incantevole stride con i caratteri infernali di cui è imperniata la vicenda, in cui l'aridità degli animi si contrappone ai panorami mozzafiato di un deserto in riva al mare. Lo spettatore è in balìa di una narrazione ben costruita che genera una tensione costante, con una regia che predilige il più delle volte l'omissione alle immagini esplicite. La scelta di silenzi carichi d'intensità, rafforza l'efficacia delle lunghe sequenze del film, con le musiche a fare da contrappunto con brevi sonorità, subito interrotte da una rinnovata quiete apparente - e devastante. Ne esce un'immagine di desolazione e impotenza, addolcita solo dal sergente Rasmussen che riporta tutto ad un senso di rettitudine ammirevole grazie a una rinnovata empatia con i ragazzi. Il bagliore alla fine del tunnel, il confine con la Germania a poche centinaia di metri, risulterà però pretenzioso e un po' poco credibile laddove il cambio di tendenza sentimentale del capitano per i suoi prigionieri è un pretesto debole per il disgelo totale delle relazioni che conducono alla liberazione. Per un film che è riuscito a mantenere una linea lucida e realistica, il rischio era quello di scadere nella retorica, ma Zandvliet riesce a sublimare l'importanza degli sguardi dei ragazzi scomparsi a scapito delle parole dei superstiti, relegando la salvezza solo a un'anomalia. 
Genere Guerra Durata 101
Regista Martin Zandvliet
Attori Roland Møller, Mikkel Boe Følsgaard, Laura Bro, Louis Hofmann, Joel Basman. Oskar Bökelmann, Emil Buschow, Oskar Buschow, Leon Seidel, Karl Alexander Seidel, Maximilian Beck, August Carter, Tim Bülow
Paese Danimarca, Germania Anno 2015
Scheda e Trailer http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=87559
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 Risorto  Risen
poster La visita dell'imperatore Tiberio a Gerusalemme è alle porte e Ponzio Pilato ordina al tribuno militare Clavio di accertarsi che quel tale Yeshua che fa proseliti, spacciandosi per un re, sia messo a morte e che il suo cadavere sia sorvegliato per mettere a tacere le assurde voci di una sua possibile resurrezione. Ma il cadavere sparisce e Clavio avvia un'indagine che mette progressivamente in dubbio le sue certezze di scettico e si fa ad un certo punto ricerca di altro genere, interrogativo che gli cambia la vita. L'idea di approcciare il mistero della resurrezione di Cristo come un'indagine poliziesca non è nuova, a metà degli anni Ottanta Damiano Damiani ci aveva costruito L'inchiesta, da un'idea (geniale, al solito) di Ennio Flaiano, e la letteratura sull'argomento che coniuga saggismo e narrativa non ha mai smesso di esistere. Le cose non cominciano però nel migliore dei modi quando il film di Kevin Reynolds si apre su un Joseph Fiennes bruciato dal sole e scortato da una musica dalle sonorità western, perché è subito chiaro che gli strumenti del cinema potrebbe venire qui impiegati in una maniera che serve più lo spettacolo che altro. E così è, sempre più, man mano che assistiamo alle magiche apparizioni e alla sparizioni di Gesù, quasi fossimo in un film di Méliès: un espediente che nuoce al film anche sul piano tematico, sostituendo il salto nel buio di Clavio con il deus ex machina dell'artificio tecnico. Se, infatti, nel film di Damiani, l'immagine corporea di Cristo non appariva mai, ribadendo con la sua assenza la permanenza di un mistero che dura a tutt'oggi, e permettendo che i lebbrosi scambiassero l'inquirente per Cristo stesso, il film di Reynolds gioca con carte più scoperte e modi ben più banali, riducendo lo scettico Clavio ad un ultimo fra gli ultimi e dunque ad una figura a suo modo cristologica, ma anche al beneficiario finale del tocco di incoraggiamento sulla spalla che il maori Cliff Curtis elargisce ai suoi ilari discepoli e della sua capacità di leggere nella mente. Fino a dove l'inquisizione è faccenda storica e garbuglio politico, il film riscuote un certo tipo di interesse e, nonostante qualche scenografia troppo fasulla e qualche inutile bozzetto (il governatore Pilato che si lava le mani), ci accodiamo al cavallo di Clavio/Fiennes e lo seguiamo fino a che l'equilibrio tra la presenza del tribuno romano, frutto d'invenzione, e il racconto delle Scritture regge. La seconda parte, però, inaugura l'uso più strumentale e inverosimile della narrazione evangelica per raccontare la scelta di Clavio, mescolando generi e toni e perdendo in qualità e serietà. 
Genere Azione Durata 107
Regista Kevin Reynolds
Attori Joseph Fiennes, Tom Felton, Peter Firth, Maria Botto, Luis Callejo. Antonio Gil, Cliff Curtis, Mish Boyko, Stewart Scudamore, Stephen Greif, Stephen Hagan, Mark Killeen, Selva Rasalingam, Andy Gathergood
Paese USA Anno 2016
Scheda e Trailer http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=79852
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 The Divergent Series: Allegiant  The Divergent Series: Allegiant
poster Distrutto il regime che li opprimeva Tris e Quattro si trovano a dover affrontare un nuovo ordine, non meno inumano del precedente, che li spinge ad andare al di là delle barriere. Il mondo che trovano, ancora una volta non è dei migliori. Scoprono infatti di aver vissuto in una bolla, un esperimento, costantemente tenuto d'occhio. Il loro era il tentativo di riportare la razza umana all'originaria purezza, dopo troppi anni di ingegneria genetica che hanno contaminato le persone e avvelenato il pianeta con guerre spietate. Ora la Terra è un luogo proibitivo, solo alcuni grandi centri tecnologicamente avanzati rimangono vivibili. Lì l'elitè cerca di ritornare alla normalità. Tris e la sua divergenza potrebbero essere il segreto di un ritorno alla purezza originale, lei è l'eletta ma dovrà guardarsi da come il potere desidera manipolarla. Concentrato ma senza polpa, Allegiant chiude i tre film della saga iniziata con Divergent e proseguita con Insurgent, prima dell'arrivo del prossimo Ascendant, spegnendo qualsiasi (fioca) scintilla fosse stata accesa in precedenza. Cambiando sceneggiatori ancora una volta (ma il regista rimane Robert Schwentke come nel precedente) Allegiant passa da sciapo adattamento a pessimo film tout court. Costretto a poco dall'inizio ad abbandonare il modello sui cui è stato ricalcato, ovvero Hunger Games, questo finale di serie annaspa in un vortice di eventi eccessivamente concentrati. Accade troppo e tutto troppo in fretta, senza nessuna distensione, senza cioè quel passo controllato utile a dare respiro agli eventi, cosa che invece era il pregio maggiore della chiusa di Hunger Games. Come se dovesse riassumere troppo in un tempo troppo stretto, il film non ha la forza di fare delle scelte e trarre da un grande racconto una sintesi ugualmente rappresentativa. Allegiant di fatto si ingolfa a più riprese fino al totale sfinimento. Se nella prima parte sembra di assistere ad una bozza di quello che erano i film precedenti, da metà in poi il film diventa una produzione misera, materiale di serie C, inspiegabile per i budget e il seguito della serie. Il design degli ambienti futuri, l'unico elemento che avrebbe potuto dare personalità al tutto, subisce un drastico ridimensionamento. Se il primo capitolo si era difeso e il secondo aveva tirato i remi in barca, replicando molto di già visto tra i soliti costumi e le le solite convenzioni di design, qui si vira verso idee psichedeliche senza senso, un mondo contaminato tutto color rosso, con piogge cremisi di infimo gusto. Esiste inoltre in Allegiant un disprezzo inspiegabile per i dialoghi. Di mancato confronto in mancato confronto, il film procede affiancando personaggi che non riescono a spiegarsi l'un l'altro con l'unico beneficio di portare avanti gli equivoci che alimentano un intreccio troppo semplice per essere vero. A questo punto l'unico dettaglio che sembra reggere il peso di un film intero è la sfiducia verso le istituzioni, il continuo confrontarsi dei protagonisti con un potere che non è all'altezza della propria responsabilità e sempre diretto verso l'inganno e la sopraffazione, come se la natura stessa di governo implicasse la mistificazione. Peccato che anche questa non sia un'idea originale, ma derivata da Hunger Games. Che poi la storia d'amore tra i protagonisti sia il trionfo del platonico sembra la ciliegina sulla torta di uno dei film più ipocriti dell'anno. 
Genere Fantascienza Durata 110
Regista Robert Schwentke
Attori Shailene Woodley, Theo James, Jeff Daniels, Miles Teller, Ansel Elgort. Zoë Kravitz, Maggie Q, Ray Stevenson, Mekhi Phifer, Daniel Dae Kim, Bill Skarsgård, Octavia Spencer, Naomi Watts, Keiynan Lonsdale, Jonny Weston, Nadia Hilker
Paese USA Anno 2016
Scheda e Trailer http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=80816
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 Two Men in Town  La voie de l'ennemi
poster William Garnett è un uomo cambiato. 18 anni di prigione (era la sua quinta volta in carcere) l'hanno trasformato, complice anche l'incontro con la religione musulmana. Quando arriva la libertà su parola è pronto a darsi da fare. Purtroppo non la pensa uguale lo sceriffo locale nè il vecchio socio di attività criminose è disposto a perdere il valido compare di una volta. William Garnett si ritrova così solo assieme all'agente incaricato di vigilare sulla sua buona condotta, l'unico barlume di umanità, giustizia ed equità in un piccolo microverso che sembra soltanto volere che lui crolli. Basandosi su Due contro la città, il film di Josè Giovanni del 1978, Rachid Bouchareb porta in America il racconto della difficile riabilitazione di un condannato che ha scontato la sua pena e vorrebbe solo inziare una nuova vita. Il piccolo centro di Montpellier è sostituito da un paesino minuscolo al confine con il Messico, terreno di sconfinamenti continui che non finiscono mai bene e luogo dove la criminalità conta quanto la legge. Nonostante questi elementi tuttavia Bouchareb non sceglie mai la strada del western, non calca la mano su quegli elementi che darebbero un respiro molto americano al film (cosa che visto l'esito finale forse avrebbe aiutato la storia a scorrere un po' più fluida) e vuole battere i propri percorsi in totale autonomia. Rispetto all'originale infatti è molto smussato il ruolo infame e tarpante della polizia, a favore di un maggior rilievo del vecchio ambiente criminale. Più che le angherie dello sceriffo che ce l'ha con lui per aver ucciso il suo vice, è la violenza del mondo criminale ad essere la vera gabbia per Bouchareb che si sforza di rimettere in pari la bilancia della "fiducia nella giustizia" alternando quasi matematicamente alle azioni del poliziotto buono, quelle dello sceriffo cattivo. Come se fosse passato attraverso il filtro di Carlito's way (dove c'era sempre il grandissimo caratterista Luis Guzman), dimenticando che il film originale nasceva dalla vera esperienza (e dal vero livore) di quel regista, Two men in town (titolo internazionale poco corretto e molto fuorviante, diverso dall'originale che significa "Verso il nemico") mette sullo stesso piano criminali e polizia, lasciando però ai primi l'onere di compiere l'ultimo miglio e far crollare ogni illusione. Salta agli occhi come un silenzio assordante la mancanza più totale di violenza da questo film in cui la morte è ovunque. Bouchareb sceglie di non ritrarre quasi mai l'efferatezza, inquadra la morte da lontano e ne nasconde gli aspetti più impressionanti. La concentrazione è dunque tutta sulla violenza psicologica subita dal protagonista, l'ingiustizia proveniente dalla continua frustrazione del proprio desiderio di redenzione. Eppure, nonostante questa sia evidentemente la scelta più difficile, appare totalmente fuori luogo la sottrazione di ogni asperità in una storia che poi vuole nutrirsene. In Two men in town l'efferatezza è ovunque ma ci sfugge non per contingenze quanto per continue scelte di un regista che sembra parare gli occhi dei suoi spettatori nei momenti più terribili (comunque inseriti nella trama). Ne fa le spese soprattutto il personaggio di Luis Guzman, boss della mala tutto minacce e terrore che non vediamo mai attualizzare tale proposito, finendo lentamente per percepirlo come un buffone da che dovrebbe essere portatore di terrore, e alla lunga anche il film, ripiegato sui momenti morti e troppo ingiustamente caricato solo sulle spalle di Forest Whitaker. 
Genere Drammatico Durata
Regista Rachid Bouchareb
Attori Forest Whitaker, Harvey Keitel, Luis Guzmán, Ellen Burstyn, Tim Guinee. Brenda Blethyn
Paese USA, Francia Anno 2014
Scheda e Trailer http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=78330
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 Un paese quasi perfetto  Un paese quasi perfetto
poster "Una volta c’era il lavoro", recita la voce fuori campo di Silvio Orlando nell'incipit di Un paese quasi perfetto, e basta invertire l’ordine delle parole per capire che quella che si racconterà è una favola che, per una volta, non vede protagonista un re o una principessa, ma l’assenza di impiego che ha umiliato e desertificato un’intera nazione: quel Paese imperfetto in cui (soprav)viviamo. Massimo Gaudioso, lo sceneggiatore di Matteo Garrone (ma anche di Gianni Di Gregorio, Daniele Vicari, Daniele Ciprì e Carlo Verdone, per citare solo qualche nome), torna dietro la cinepresa dopo Il caricatore e La vita è una sola per raccontare la storia di tre amici che vivono a Pietramezzana, paesino di fantasia nelle Dolomiti lucane di cui cercano di risollevare le sorti. Domenico, Nicola e Michele non si rassegnano alla cassa integrazione e cercano di restituire dignità a quello che un tempo era un laborioso centro minerario. L’occasione sembra essere l’apertura di una nuova fabbrica, ma oltre al reperimento di una cifra consistente da parte della banca locale diretta da Nicola si richiede la presenza di un medico in loco, figura che a Pietramezzana manca da tempo. Per fortuna passa di lì Gianluca Terragni, un chirurgo plastico del Nord che deve scontare un’infrazione: quale punizione migliore che costringerlo a praticare in paese per un mese, potendo così mostrare la sua presenza agli investitori della fabbrica? Un paese quasi perfetto è il remake italiano di un film francocanadese del 2003, La grande seduzione, ma è soprattutto il tentativo di bissare il successo di un altro remake, quel Benvenuti al Sud sceneggiato dallo stesso Gaudioso. E se è vero che Gaudioso ha una grande abilità nell’adattare alla realtà italiana storie che provengono da altri paesi, non è altrettanto abile nel rendere i suoi personaggi riconoscibili nel contesto dell’Italia contemporanea. È certamente intenzionale la scelta di una cifra retrò e del tono favolistico di cui sopra, ma anche nelle caratterizzazioni più stilizzate ci deve essere un riscontro di verità, un sottotesto autentico che qui manca, e che invece sarebbe necessario parlando di crisi economica e di problemi reali come la perdita del lavoro e l’abbandono dei paesi da parte dei neodisoccupati. Paradossalmente il problema sta prima di tutto nella scrittura e si riflette poi nella recitazione che diventa forzata ed eccessiva. Fanno eccezione Fabio Volo, sempre fedele a se stesso, e Carlo Buccirosso, sempre in grado di gestire bene il suo spazio filmico, anche perché il suo è l’unico ruolo davvero originale della storia, ovvero il bancario con una coscienza che rifiuta di essere considerato alla stregua di un Bancomat e crede ancora che le banche abbiano una mission diversa da quella di arricchirsi: quella di investire nei propri clienti, restituendo loro la fiducia in se stessi, oltre che la speranza in un futuro migliore. Gli altri personaggi, a cominciare dal medico milanese prima cinico arricchito e improvvisamente, senza il beneficio di una motivazione credibile o di un vero arco narrativo, ingenuo amante della vita campestre, fino alla bella di Pietramezzana di cui non si spiega mai il muso lungo, si comportano come se non avessero consapevolezza di sé. Del resto la sceneggiatura si esprime come se non avesse fiducia nell’intelligenza del pubblico: basti pensare alla sottotrama in cui Gianluca e il resto del paese cadono dalle nuvole scoprendo un tradimento che gli spettatori hanno già intuito molto prima. Più che di un ritorno all’ingenuità del cinema italiano anni ’50, cui palesemente Gaudioso si ispira, Un paese quasi perfetto sembra dunque un modo pragmatico di capitalizzare su un format che ha avuto successo nel passato recente. 
Genere Commedia Durata 92
Regista Massimo Gaudioso
Attori Fabio Volo, Silvio Orlando, Carlo Buccirosso, Nando Paone, Miriam Leone. Francesco De Vito, Gea Martire, Antonio Petrocelli, Maria Paiato
Paese Italia Anno 2015
Scheda e Trailer http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=84574
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 Veloce come il vento  Italian Race
poster Giulia De Martino vive in una cascina nella campagna dell'Emilia Romagna con il fratellino Nico. Sua madre se ne è andata (più volte) di casa, e suo fratello maggiore Loris, una leggenda dell'automobilismo da rally, è diventato un "tossico di merda" parcheggiato in una roulotte. Quando anche il padre di Giulia, che aveva scommesso su di lei come futura campionessa di Gran Turismo usando come collaterale la cascina, la lascia sola, Giulia si trova a gestire lo sfratto incipiente, il fratellino spaesato e il fratellone avido dell'eredità paterna. Ma la vera eredità dei De Martino è quella benzina che scorre loro nelle vene insieme al sangue e quel talento di famiglia, ostinato e rabbioso, per le quattro ruote. Dopo due regie da rampollo di buona famiglia - Un gioco da ragazze e Gli sfiorati - Matteo Rovere finalmente esce dai Parioli e riscopre le sue radici romagnole, con tanto di unghie sporche di terra e imprecazioni in quel dialetto sanguigno che domina il mondo del motor sport italiano. Con intelligenza, sensibilità e gusto Rovere si butta a rotta di collo lungo un tracciato pieno di curve pericolose tenendo ben saldo il volante, con il sostegno di una bella sceneggiatura scritta a sei mani, oltre che da lui, da Filippo Gravino e Francesca Manieri. Lo spunto è una storia vera raccontata al regista da un meccanico scomparso l'anno scorso, cui sul grande schermo dà il volto segnato e la recitazione misurata l'ottimo Paolo Graziosi. Lo stile è quello del film di genere, ma più che al motor movie stile Rush Rovere attinge all'underdog movie di matrice atletica alla Rocky o alla Flashdance, aggiungendo un pizzico della follia da race movie farsesco alla Quei temerari sulle macchine volanti. Volano davvero, le auto da corsa di Veloce come il vento, così come sono davvero matti e disperatissimi i loro piloti (il che ispira la battuta migliore del film), giovani o vecchi, maschi o femmine. Perché uno dei (tanti) pregi del film di Rovere è che racconta (senza mai sottolinearlo con facile retorica e ancor più facile piaggeria nei confronti del pubblico femminile) un mondo dove le pari opportunità sono reali: Giulia gareggia da sempre insieme ai piloti uomini, e tutto ciò che conta è l'asfalto che brucia e la grinta che sa dimostrare al volante. Matilda De Angelis, al suo esodio cinematografico, è perfetta nei panni di una 17enne che ha il motore nel dna ma anche responsabilità adulte e piedi ben piantati per terra. Il suo sguardo sotto il casco mescola terrore e adrenalina, il suo corpo acerbo comunica fragilità e determinazione. La sua recitazione sobria e autentica, che ben si sposa con quella di Grazioli e del piccolo Giulio Pugnaghi nei panni di Nico, fa da contraltare e da contenitore a quella sopra le righe di Stefano Accorsi, che sulle prime pare gigioneria e invece conquista gradualmente dignità e carisma, per diventare la brillante caratterizzazione di un uomo in equilibrio su un crinale scosceso, un perdente glorioso degno di quell'universo epico e spaccone che è il mondo delle corse, siano esse su circuito di Formula Uno o su strada sterrata. Passato il mezzo del cammin della sua vita Accorsi sciacqua saggiamente i panni nel Po e non solo rispolvera il suo accento (pre Maxibon) ma acquisisce anche una postura da contadino della Bassa, e attinge alla fame di vita del Vasco prima maniera e alla poesia anarchica del Liga (Antonio, più che Luciano). Le riprese di gara sono convincenti e si lasciano seguire anche da chi non le conosce né le apprezza, e non privilegiano mai l'abilità tecnologica rispetto alla dimensione umanistica del racconto. In questo senso Veloce come il vento è più analogico che digitale, e gli effetti speciali sono vintage come il codice d'onore di Loris De Martino. Il film di Rovere fa parte di quella rinascita del cinema italiano che affronta il genere per trascenderlo, e affonda le radici nei localismi dopo aver appreso a fondo la lezione (cinematografica) della globalizzazione. Soprattutto, fa qualcosa di grande: mostra alle giovanissime generazioni, per bocca di un quarantenne che si è bruciato e che ha distrutto l'automobile con cui correva vent'anni fa (una datazione non casuale), che si debba, e si possa, correre dei rischi, che si possa, e si debba, aggiustare ciò che abbiamo (o è stato) fatto a pezzi, che è lecito farsi (del) male ma anche (auto)ripararsi. Dimostra che aver paura di tagliarle il cordolo (o il cordone ombelicale) allontana dal traguardo, e che le ragazze non sono condannate ad essere colibrì dalle ali azzurre, ma possono diventare contendenti. 
Genere Azione Durata 119
Regista Matteo Rovere
Attori Stefano Accorsi, Matilda De Angelis, Roberta Mattei, Paolo Graziosi, Lorenzo Gioielli. Giulio Pugnaghi
Paese Italia Anno 2016
Scheda e Trailer http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=83306
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 Victor - La storia segreta del Dottor Frankenstein  Victor Frankenstein
poster Un povero clown deforme viene maltrattato e umiliato costantemente nel circo in cui è costretto a lavorare e di cui non ha mai superato i confini. Un giorno però, in seguito a un incidente di cui è vittima la trapezista di cui è segretamente innamorato, ha modo di incontrare uno studente di medicina, Victor Frankenstein. Costui comprende immediatamente la passione nascosta che il clown coltiva da sempre per l'anatomia umana e lo fa fuggire dal lavoro-prigione. Da quel momento diventerà il suo assistente con il nome di Igor. Sin dalle prime battute del film la voce del narratore (di cui scopriremo rapidamente l'identità) si rivolge agli spettatori con la consapevolezza di stare per iniziare a proporre una storia già nota. Fa bene perché, a partire dal romanzo di Mary Shelley (pubblicato nel 1818 e modificato per la seconda edizione nel 1831), si aggirano attorno al numero 60 le rivisitazioni della vicenda nelle varie forme di spettacolo. Nel cinema ad esempio si poteva pensare che dopo la fiammeggiante rilettura condotta da Kenneth Branagh fosse difficile rimettersi all'opera sul personaggio sfatando inoltre l'equivoco diffuso che confonde il mostro con il cognome del suo creatore. La sceneggiatura di Max Landis provvede alla bisogna iniziando con il mutare il punto di vista. Il pubblico non è invitato a seguire le vicende dello 'scienziato pazzo' in una personale soggettiva ma attraverso lo sguardo e le progressive scoperte del clown con la gobba che, nel continuo gioco tra ciò che appare e ciò che è, risulterà non essere tale. A Victor la sua presenza è necessaria così come il suo anonimato. Il nome che gli darà servirà a coprire la presenza/assenza di un altro Igor la cui sorte verrà svelata solo più avanti. Va ricordato che il personaggio dell'assistente non era presente nel romanzo della Shelley ma che un suo predecessore prese corpo proprio come narratore in uno spettacolo teatrale a cui James Whale si ispirò per creare nel suo Frankenstein del 1931 il personaggio di Fritz. Il nome Ygor prese corpo, anche se con una funzione diversa, con Bela Lugosi in Il figlio di Frankenstein. Il mutamento del punto di vista porta con sé, come abbiamo visto, l'idea del 'doppio' e nel film il doppio (sia da un punto di vista di ruoli che da quello fisiologico) assume grande rilevanza. Non mancano certo echi della recente rilettura del personaggio di Sherlock Holmes (McGuigan ha anche diretto alcuni episodi della versione seriale) che rischiano di debordare, in particolare, nella sequenza che precede la fine. Resta però interessante l'opposizione tra scienza e religione rappresentata da Frankenstein da una parte e dal detective Turpin in cui Igor si trova ad assumere una posizione che si potrebbe definire di medietà in quanto comprende e condivide la necessità dei progressi della scienza ma vede anche gli imprescindibili limiti da porre sul piano dell'etica. Un innesto interessante è dato poi dalla presenza dei nobili finanziatori delle ricerche di Victor: il loro unico scopo è quello di portare a casa profitti il più rapidamente possibile dagli esperimenti non importa come condotti. Viene in mente l'attualità del tema e, come spesso accade con il cinema, il film finisce con il far ricordare un altro film, totalmente diverso ma fondamentalmente simile: The Constant Gardener - La cospirazione tratto anch'esso da un romanzo (di John Le Carré). 
Genere Drammatico Durata 109
Regista Paul McGuigan
Attori Daniel Radcliffe, James McAvoy, Jessica Brown Findlay, Andrew Scott, Charles Dance. Mark Gatiss, Freddie Fox, Adrian Schiller, Louise Brealey, Daniel Mays, Valene Kane, Bronson Webb, Spencer Wilding, Alistair Petrie, Guillaume Delaunay, Di Botcher, Callum Turner
Paese USA Anno 2015
Scheda e Trailer http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=72960

Nuovi Arrivi: Created on 6/1/2016

Totale Nuovi Arrivi: 13 movies